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YES, WE KANATA

YES, WE KANATA

regia di una storia, di Robert Lepage

 

Giuliano Compagno

 

In anteprima italiana, il pubblico del Napoli Teatro Festival ha affollato il Politeama per assistere a Kanata, gigantesca opera annunciata di Robert Lepage, il quale ha saputo “guidare” sul palco più di trenta attori del Théâtre du Soleil, e lo ha fatto per la gioia di raccogliere una sfida difficile: quella di mettere in scena una nazione intera: Kanata. Un’assonanza, questa, che rimandava a un termine irochese, lingua nativa americana oggi praticata da alcune migliaia di abitanti tra Ontario e Québec. “Kanata” vuol dire paese, con il dichiarato intento di non attenuare l’impresa di collettiva auto-coscienza a cui la cultura canadese sembra essersi votata per legittimarsi in via definitiva. Nulla di diverso, in fondo, da quanto è toccato al popolo tedesco (per ragioni di assoluta evidenza storica), allorché Edgar Reitz si accollò il peso di Heimat, 15 ore di un film monumentale che intese narrare il Novecento tedesco tra il 1919 e il 1982.

Ecco, Lepage premette che questo suo Kanata 1. La Controverse sarà il primo tratto di un sentiero parecchio tortuoso, giacché il nodo originario, alla fine, sembra non sciogliersi. Infatti, rispetto al lungometraggio reitziano, volto a ricostruire un’identità cancellata e distrutta, per Lepage la sfida sarebbe di creare un’identità nuova di zecca. Oggi l’identità nazionale appare un obiettivo che, in ogni stato europeo, viene perseguito con una falsità e un’ipocrisia degne di miglior causa, come se vi fosse ancora un paese a poterne vantare una senza macchie o senza strappi. Del resto, il sodalizio artistico tra Robert Lepage e Ariane Mnouchkine dimostra la stima di Lepage nei confronti di un’esperienza, quale è quella della collega europea, di ricerca e di movimento permanenti, proprio a staccarsi dai cascami di una certa tradizione ottocentesca.

 

 

Consapevole di cosa lo avrebbe atteso, Lepage prova comunque a narrare secoli di storia e di cronaca canadesi. Lo fa a partire dalle oppressioni e dalle violenze subite dagli indigeni. Da qui in poi egli procede in una sorta di esercizio auto-cosciente di un popolo che parla a se stesso. Con tutte le previste difficoltà, lo spettacolo presenta un’ammirevole idea di regia, fondata su quella “velocità sociale” che contrasta con i limiti e con la lentezza della visione storica. E l’impressione non muta dinanzi allo sguardo colpevole nei confronti delle minoranze tuttora resistenti, al collettivo smarrimento dinanzi alla crescente potenza delle componenti asiatiche, e forse a un celato sentimento di anglosassone superiorità nei riguardi di quella gente variamente assimilata che discende dall’immigrazione europea più povera, quella italiana su tutti.

Se questo è il quadro, un dipinto contemporaneo tenta di illustrarlo a partire dall’incontro tra Leyla, una curatrice artistica di Ottawa, e Jacques, direttore di un museo francese interessato a una mostra sugli autoctoni. Una banale simpatia tra i due funge da occasione per spostare scena e spettatori dall’Ontario a Vancouver, dove vive Tanya, figlia adottiva indiana di Leyla e figlia naturale di un degrado sociale che ha il suo epicentro a Downtown Eastside, in quella Hastings Street dove sono attive la prostituzione e la tossicodipendenza, dove la follia e l’alcolismo trovano rifugio. E aggiungerei: dove le cose vanno come vanno in tutto il mondo, nei due emisferi, a occidente e a oriente, tra poveri o tra ricchi, dove malattia, compulsione e auto-distruzione hanno radici assai meno politiche di quanto si creda. Ciò detto per assolverci ancor meno come individui e per non nasconderci più dietro le bandiere e le storie patrie.

Il Canada è un grande paese, e questo immane lavoro di Robert Lepage lo dimostra.

Ma il Canada non sarà mai un paese perfetto, non risolverà mai le sue contraddizioni, non cancellerà la sua storia né con un progetto di redenzione né con una perpetua operazione risarcitoria. E nonostante questo il Canada rimarrà quel bellissimo Laboratorio nazionale che è, dove artisti e scienziati, urbanisti e poeti, immigrati e ospiti, continueranno a convivere civilmente, prima dell’apertura e dopo la chiusura del sipario di Kanata, che vuol dire villaggio ma che, in scena, poteva anche tradursi in umanità apolide. Anche questa è parte di una nazione. Ci sono cittadini che non trovano mai casa, ve ne sono altri che non la cercano. L’importante è che le porte restino aperte, o almeno socchiuse.

Giuliano Compagno è scrittore e drammaturgo. Ha pubblicato 23 volumi tra romanzi, saggi e raccolte di aforismi. Ha scritto per il teatro di Giancarlo Cauteruccio, di Solari/Vanzi e di Marcello Cava. Ha ideato, curato e scritto i libretti per quattro opere composte dal Maestro Vittorio Montalti. È legato a quattro pensatori e autori del '900: Georges Bataille, Georges Perec, Marshall McLuhan e Mario Perniola.