Politica e relazioni internazionali al tempo del Covid-19

La pandemia ha messo in luce la cronica debolezza della cooperazione internazionale, i limiti dei Governi e le storiche contrapposizioni tra gli Stati.
Canada e Europa si assumeranno il ruolo di sostenere un multilateralismo sempre più fragile nel proteggere i beni internazionali, in primis sicurezza e salute globali?
Laura Borzi
Tra gli eventi suscettibili di determinare grandi crisi strategiche con minacce al sistema internazionale si annoverava, qualche anno fa, la concretizzazione di un rischio rilevante di carattere non militare, ma con importanti conseguenze sul piano della sicurezza.
Tra gli esempi si indicava una pandemia dagli effetti devastanti originatasi a seguito alla mutazione di un virus influenzale[1].
Il rischio biologico si è materializzato nel 2020 con il Covid-19 che ha messo a dura prova prima la Cina e altri paesi asiatici, poi l’Italia con l'Europa che diventava l’epicentro del virus.
Progressivamente ed inesorabilmente, la comunità internazionale nella sua totalità[2] ne è risultata affetta, con 216 tra nazioni e territori coinvolti.
In realtà, se la probabilità di una pandemia su vasta scala era stata considerata dagli studiosi nei decenni passati, nondimeno l’ampiezza della crisi attuale si è configurata come fenomeno inedito di una complessità scientifica considerevole, tale da costituire un vero stress test per il pianeta, una sorpresa strategica con conseguenze enormi per il futuro.
Nel corso dei quattro mesi dall’inizio di questa crisi epocale praticamente tutti i Paesi con una certa sfasatura temporale hanno seguito lo stesso copione:
- iniziale titubanza sulle dimensioni e gravità della minaccia
- prime misure precauzionali
- incrementale messa in atto di strumenti coercitivi che hanno significativamente ristretto le libertà fondamentali dei cittadini e bloccato le attività economiche.
L’epidemia, anche per la rapidità del contagio, ha portato una minaccia vitale alla popolazione mondiale con effetti dirompenti sui sistemi sanitari: le strutture ospedaliere sono state messe alla prova poiché si sono trovate ad affrontare una crescita esponenziale dei casi necessitanti terapie d’urgenza e strumenti di assistenza respiratoria. Numeri impressionanti e, conseguentemente carenze di risorse umane e tecniche, con una situazione che per certi versi ha condotto ad una quasi paralisi delle società nel suo complesso.
Per interrompere la diffusione del virus le indicazioni dell’OMS erano chiare:
- procedere con test estensivi
- tracciare le persone positive e i loro contatti
- applicare l’isolamento.
Evidentemente ogni Paese ha avuto un approccio intellettuale specifico alla crisi Covid-19 in linea con la storia e la cultura politica della società coinvolta, con il formato delle proprie strutture sanitarie ed amministrative e, non ultimo, con i propri valori.
Varianti significative per la risposta più o meno efficace all’offensiva del virus si sono ricercate nella competenza e autorità dei governanti, nella struttura del sistema, federalismo o Stato accentratore, oppure nella distinzione tra regimi autocratici o democratici, nel concetto di Gemütlichkeit ovvero le abitudini umane più o meno orientate al contatto fisico infine, più banalmente in elementi di casualità.
La crisi è riuscita a mettere sotto la lente, da un lato forze e debolezze degli Stati, dall’altro evidentemente l’incuria del sistema globale che, nell’erosione del multilateralismo, lascia alla deriva la protezione dei beni pubblici internazionali.
Cina Vs Stati Uniti
La competizione sino-americana, fenomeno strutturante delle relazioni internazionali, si è accentuata in questa circostanza con
- l’offensiva diplomatica della Cina, che vanta l'efficacia del proprio modello nei confronti del virus e sottolinea l’inadeguatezza di altri Paesi con in testa proprio gli Stati Uniti
- L’accusa degli Stati Uniti verso la Cina di pro-genitura, pur involontaria del Covid 19
- La conferma di un sistema sanitario che bene esemplifica le disuguaglianze della società nel suo complesso.
L’autocrazia paternalista di stampo cinese si è mostrata efficiente a crisi conclamata, ma l’opacità delle informazioni è un dato che rende l’operato della Cina meno intelligibile rispetto ad altri paesi del Sud est asiatico.
Anche per questo Pechino si presta ben poco a modello.
Sul piano delle relazioni esterne, la via sanitaria della seta, con l’aiuto all’Italia ad esempio, in un momento in cui l’Europa derogava al concetto di solidarietà, non assolve del tutto dalla probabile pressione diplomatica sull’OMS che avrebbe potuto muoversi con maggiore celerità se non si fosse fatta carico, come in un passato recente (2002-03 SARS severe acute respiratory syndrome), di preoccupazioni politiche ed economiche nazionali[3].
In realtà nella ricerca della formula di successo per debellare la pandemia, se una distinzione significativa merita di essere fatta è quella della divisione del mondo in due campi.
- Da un lato gli Stati che avevano già vissuto ondate epidemiche e ne avevano tratto esperienza come i Paesi del sud est asiatico, Corea del Sud, Singapore e Taiwan forti delle loro esperienze Sars (ma anche MERS-coronavirus che dal Medio Oriente si era diffuso in diversi Paesi a partire dal 2012) e capaci di fornire velocemente maschere, test e strategie di tracciamento.
- Dall’altro quelle regioni del globo che non hanno vissuto tale situazione, almeno nel XXIo secolo, Europa e America risultando colpite in maniera diversa e maggiormente consistente. Ma anche in questo caso si registrano varianti nel vecchio e nuovo continente.
Sostanzialmente si tratta di aver perseguito o meno una politica di allocazione adeguata di risorse e organizzazione del sistema sanitario già ad esempio negli anni successivi all'influenza aviaria con investimenti in misure di precauzione.
Molti Stati possono, in altre parole, essere ritenuti colpevoli di negligenza, un concetto che tanto sul piano interno che internazionale ha come altissimo prezzo gli effetti del Covid-19.
E poi, più banalmente, ci sono da una parte quegli attori che hanno avuto l’esempio degli Stati colpiti con qualche settimana di anticipo e hanno serrato i ranghi e dall’altro coloro che hanno negato la possibilità di essere vittima di un virus che, ovviamente, non trovava confini non solo alle frontiere statali, ma neanche in quelle climatiche, ritrovandosi a ogni latitudine dal Burkina Faso al Québec.
Strumenti preventivi e politica ispirata al principio di massima precauzione in particolare per gli operatori sanitari: questa la risposta chiave, un concetto su cui insisteva, come si vedrà, in un rapporto della Commissione Canadese post SARS del 2006.
La gestione del Coronavirus nei Paesi europei
L’Italia è stato il primo caso di reazione in una società democratica e industrialmente avanzata dell’Occidente che ha dovuto affrontare una tale emergenza. Il virus si è manifestato con un impatto aggressivo con un pesantissimo numero di contagiati e decessi[4].
In aggiunta nelle fasi iniziali ha messo in luce le ulteriori dinamiche di sicurezza interna che può innescare una pandemia. La rivolta nelle carceri a inizio marzo è indice di come una crisi sanitaria abbia la potenzialità di diventare sistemica e provocare fratture ulteriori tali da inficiare i meccanismi di funzionamento della società nel suo complesso con la destabilizzazione dell’ordine pubblico.
Sul piano operativo (e su quello dei valori) la strada intrapresa da Roma è stata una soluzione volta alla protezione massima della popolazione, non prendendo in considerazione il fenomeno “naturale” dell’immunità di gregge.
La concezione di valori per cui è l’insieme della società a dover essere messo in salvo è un approccio che si ritrova in Spagna e Francia, per citare due tra i Paesi europei maggiormente colpiti. In questi frangenti sono state messe a nudo varie criticità tra cui:
- la sfida demografica legata a una popolazione anziana (Italia e Spagna)
- la deindustrializzazione in settori chiave ad esempio per l’approvvigionamento di materiale medico
- le conseguenze di una burocrazia “giacobina” che ha reso la gestione degli ospedali rigida e tecnocratica (Francia).
Tra i Paesi europei, la Germania ha reagito in maniera agile e rapida stante la possibilità di mettere a disposizione numerosi posti in rianimazione e test precoci grazie a un tessuto industriale significativo, quello dei grandi laboratori di biologia. Si è potuta giovare quindi di un’organizzazione ex ante.
Infine, nell’Europa oramai solo geografica d’oltremanica, il Premier britannico Boris Johnson in un primo momento aveva privilegiato proprio il concetto di “immunità di gregge”. Una opzione più orientata alla necessità primaria di protezione dell’industria e dell’economia, che avrebbe generato una sorta di darwinismo sociale, e più vicina alla mentalità anglosassone rispetto alle scelte dell’Europa del sud, dove non appariva immaginabile il sacrificio delle fasce di popolazione più deboli con l’inevitabile messa a durissima prova delle capacità ospedaliere per dare a tutti la possibilità di essere curati.
Ma anche Londra, in un secondo momento ha cambiato direzione.
Lo scenario di 250.000 decessi cui avrebbe potuto condurre la mitigation strategy, (il termine immunità di gregge non appare ufficialmente in quanto obiettivo politico secondo il Segretario alla salute, Matt Hancock[5], ma questo è in effetti il concetto che emerge) non era la strada da percorrere e, come il resto del mondo, si doveva invertire la crescita epidemica, ridurre il numero dei casi al livello più basso possibile mantenendo la situazione in modo indefinito in attesa di un vaccino.
Il Regno Unito, con oltre 36.000 decessi, secondo solo all’Italia in Europa, non ha ritenuto necessario attivarsi più celermente e giovarsi delle esperienze dei Paesi in cui l’offensiva epidemica era arrivata qualche settimana prima.
Questione di come intendere la leadership.
Trump in clima elettorale e Johnson galvanizzato dalla Brexit sono apparsi, in questa circostanza e non soltanto, come gli alfieri di un’autarchia intellettuale prima che politica, nella ricerca, certamente legittima, di benessere e prosperità per i rispettivi Paesi. Benessere e prosperità che al pari della gloria si misurano non solo nell’immediato, ma soprattutto e molto più significativamente nel lungo periodo.
Tzunami economico e debolezza del multilateralismo
Ogni Paese è stato chiamato al proprio interno a un complesso sforzo collaborativo del settore pubblico e privato per far fronte all’emergenza sanitaria. Un ruolo chiave hanno avuto gli stessi cittadini che, con i loro comportamenti, possono costituire il problema e la soluzione allo stesso tempo.
L’adesione della popolazione è essenziale nella messa in opera della risposta efficace in una situazione sanitaria eccezionale di un XXIo secolo scientifico, digitale e tecnologico dove, tuttavia, in attesa di un vaccino, il rimedio si rivela essere lo stesso del Medio Evo: la quarantena.
Detto questo il livello nazionale da solo non può di per sé riuscire a contrastare la gravità e complessità di una tale crisi sistemica a vari livelli in primis quello economico e, in prospettiva, la gestione delle emergenze nel futuro.
Per ciò che concerne l’aspetto economico, il quadro delineato dal Fondo Monetario Internazionale è quello di una revisione significativa delle aspettative di crescita[6] pre-pandemia.
L’economia globale potrebbe avere un declino del 3% nel corso del 2020 prima di riprendersi del 5.8% nel 2021. Il commercio globale potrebbe subire una caduta dell’11.0% e il prezzo del petrolio del 42%.
Si prefigura una recessione persino più grave di quella del 2009 e una ripresa prevista solo per il prossimo anno, se vi sarà contenimento del virus nel breve periodo che permetta l’allentamento delle misure restrittive e soprattutto a condizione di fornire adeguate risposte economiche su scala mondiale.
Le modalità attraverso le quali stanno rispondendo gli Stati e, più in generale, come risponderà la Comunità internazionale nel suo complesso potrebbero costituire la cartina di tornasole per il sistema delle relazioni internazionali: una prova decisiva per arrestare (o accelerare) il degrado del multilateralismo ed il complesso di valori ad esso connaturati.
La crisi Covid-19 si è così stratificata sulla debolezza del sistema del multilateralismo planetario nel senso di frammentazione delle strategie e dei consessi di dialogo tra gli Stati. Un sistema incrinato dalla competizione strategica USA e Cina nonché dalle posture di vari attori regionali che hanno cominciato a perseguire i loro interessi in maniera marcatamente unidirezionale.
Non si possono ipotizzare scenari geopolitici futuri post Covid-19 ma, dopo quasi cinque mesi di lotta con la malattia e un prevedibile futuro prossimo di convivenza con la stessa, ci sono quantomeno lezioni da tenere presenti in merito alla modalità di navigazione in acque agitate che costituisce l’orizzonte temporale della Comunità internazionale per il 2020.
Alcune osservazioni sulla traiettoria, possibile, sul ruolo del Canada, naturalmente nostro oggetto di interesse.
Canada: lesson (almost) learned
Nell’ambito dello scenario mondiale sommariamente delineato, il Canada ha rappresentato per certi versi una variante, una sorta di entre deux.
Report of the National Advisory Committee on SARS and Public Health October 2003
È tra i Paesi occidentali che hanno visto materializzarsi una situazione di grave emergenza pubblica portatrice di uno shock della società su almeno tre dimensioni, sanitaria, economica e su quella dei valori. Tuttavia, e questo al pari di Stati del sud est asiatico, Ottawa aveva già appreso alcune lezioni dall’esperienza SARS diciassette anni fa, che si sono riflesse in miglioramenti del sistema sanitario in termini di struttura e approvvigionamento di dispositivi medici che, almeno in parte, si sono rivelati utili in questa circostanza.
Stavolta però si è dovuto fare i conti con un’ondata epidemica di ben altre proposizioni rispetto al 2003 quando il virus aveva suscitato timore e caos nella città di Toronto con 345 contagiati e un bilancio, pur significativo di 44 decessi[7].
L’impatto del Covid-19 è stato rilevante soprattutto nelle regioni più popolose del Paese, Ontario e Québec. A seguire Alberta e British Columbia mentre altre regioni come Saskatchewan, Prince Edward Island e New Brunswick non sono risultate particolarmente colpite e dovrebbero essere tra le prime ad allentare le restrizioni.
Nel Nord, osservato speciale della politica di Trudeau, solo il Nunavut non ha registrato casi. I numeri complessivi, 74.613 casi di contagio e 5.562 decessi, restano a testimonianza della gravità del passaggio del Covid-19 nel vasto Paese nordamericano[8]
Le problematiche da affrontare sono, come in tutti i Paesi colpiti, come sopprimere la pandemia, sostenere le capacità del sistema sanitario e minimizzare la contrazione economica.
L’approccio canadese al Covid-19 è risultato conforme ad una cultura politica orientata al concetto di ordine e buon governo e ha risentito dell’esperienza e revisione apportata al sistema sanitario che si è messa in moto già nell’autunno 2003 quando un rapporto redatto da un Comitato consultivo nazionale, Learning from Sars[9], cercava di fare luce sull’epidemia occorsa e gestita con difficoltà, in particolare a Toronto, fornendo indicazioni su come rivedere il sistema sanitario nel caso di nuovo evento.
Dal punto di vista governativo ciò si è tradotto nell'istituzione della Public Health Agency del Canada, che sta infatti guidando la risposta all’attuale pandemia e del Chief Public Health Officer, che collabora in sinergia con il Ministero della Salute e con i soggetti provinciali e territoriali responsabili della salute.
Theresa Ta, che dal 2017 è Chief Public Officer all’insegna del binomio scienza e razionalità, ha cercato di assumere fin dall’inizio un linguaggio improntato alla calma e al monitoraggio costante della situazione. Il PM Trudeau con interventi giornalieri ha informato sulla situazione e sulle misure sanitarie ed economiche atte a contrastarla.
L’approccio canadese: intervento proporzionale all’emergenza e fiducia nelle Istituzioni
Ad aprile i consensi per il PM (e leader territoriali) erano consistenti[10] anche per una diffusa cultura politica canadese di fiducia nel governo in momenti di crisi che, inevitabilmente, è destinata a stemperarsi una volta passato il momento più difficile.
La politica dei partiti, come altrove, si è inizialmente molto affievolita di fronte all’obiettivo comune di contrastare la pandemia, anche se il leader dei Conservatori, Andrew Scheer, ha mosso alcune critiche sostenendo una certa confusione nella gestione iniziale, quando i casi erano ancora esigui, e una qualche incompletezza informativa. In queste circostanze è infatti fondamentale che le autorità sanitarie e la politica informino correttamente e puntualmente sull’evoluzione della crisi e sulle misure di prevenzione da un lato per non suscitare panico, dall’altro per non procurare disinteresse.
L’impatto consistente del virus è arrivato con ritardo temporale rispetto all’Europa e dunque per certi versi il contesto è stato caratterizzato da minori incognite. Ma anche, col passare delle settimane dalle criticità legate al confine sud.
Il Canada si è giovato geograficamente della protezione dell’Oceano su tre lati, ma il confine con gli Stati Uniti si è rivelato quello con un Paese che ha subito una forte offensiva pandemica.
La vulnerabilità per Washington, al netto delle scelte del Presidente Trump è proporzionale ai mancati investimenti nel sistema sanitario, capacità che non si costruiscono o recuperano durante un'emergenza.
Nel piano canadese di preparazione all’emergenza come asserito da Theresa Tam[11], la chiusura del confine con gli Stati Uniti non era stata inizialmente contemplata ma è arrivata in un secondo momento. La risposta, prosegue il Chief Health Officer, è risultata flessibile e costruita in modo da adattarsi a una situazione in evoluzione per questo ci sono stati vari livelli di intervento.
In effetti sembra che il Canada abbia agito in maniera proporzionale al delinearsi della minaccia con passaggi incrementali all’interno del Paese e con segnali precisi anche sul piano internazionale, seguendo la direzione indicata dall’OMS, sostenendo finanziariamente l’istituto onusiano pur in un momento in cui è stato oggetto di critiche, alcune non del tutto ingiustificate[12], tra le quali le esitazioni (diplomatiche) iniziali.
Nel complesso, pertanto, Governo federale e Province hanno agito con una certa rapidità.
Il 30 gennaio, in seguito alla seconda riunione del Comitato di urgenza convocato dal Direttore Generale dell’organizzazione, il Dr Tedros Adhanom Ghebreyesu, l’OMS dichiarava che l’epidemia causata dal nuovo coronavirus costituiva un’urgenza di salute pubblica di portata internazionale ai sensi del Regolamento sanitario internazionale (2005).
Il 15 gennaio il Governo di Ottawa aveva già attivato l’Emergency Operations Centre e si era provveduto ad aumentare le attenzioni da parte dell’Agenzia dei servizi frontalieri (Canada Border Service Agency) con la diffusione di informazioni sul virus negli aeroporti di Vancouver, Toronto e Montreal e il recupero di informazioni dai passeggeri provenienza dalla Cina centrale. Il rischio nel Paese rimaneva basso e le autorità asserivano che la situazione sarebbe stata monitorata con attenzione.
A fine gennaio si ha il primo caso di un uomo di ritorno a Toronto proprio da Wuhan[13].
Il 29 gennaio il ministro degli Esteri François Philippe Champagne annunciava il rimpatrio dei cittadini canadesi ancora presenti nell’area affetta dal virus in Cina.
Il 2 Febbraio le Forze Armate (CAF) si occupavano dell’evacuazione dei cittadini che si trovavano ancora a Wuhan. Questi, fatti atterrare alla base militare di Trenton, erano soggetti a controlli medici. Successivamente erano rimpatriati anche i canadesi a bordo della nave da crociera Diamond Princess e anch’essi posti in quarantena.
Verso la fine del mese, il 26 febbraio, si registrava una qualche dissonanza nella comunicazione governativa.
Il ministro della Salute, Patty Hajdu, suggeriva di fare scorte di cibo e medicine nell’evenienza di una rapida evoluzione della situazione emergenziale attirandosi numerose critiche da esponenti politici territoriali e nazionali, anche perché l’esortazione non era accolta dal sito governativo Health Canada.
Segnali forse di un certo nervosismo nella consapevolezza che la situazione sanitaria avrebbe subito un peggioramento anche se ancora non risultavano casi di trasmissione all’interno delle comunità che si avranno solo a marzo.
Il 4 marzo il Primo Ministro Justin Trudeau crea un Comitato di gabinetto presieduto da Chrystia Freeland per far fronte all’emergenza sul piano federale. Infatti, i casi erano saliti ad alcune decine, mentre i nuovi rapporti dell’OMS valutavano al rialzo rispetto alle stime iniziali il tasso di mortalità per i soggetti contagiati al 3.4%.
Il Ministro Hajdu annunciava due giorni più tardi che il Governo federale avrebbe messo a disposizione $27 milioni a sostegno di 47 gruppi di ricerca presso 19 università allo scopo si sviluppare strumenti di gestione della crisi.
L’11 marzo l’OMS dichiarava il Covid-19 una pandemia e sottolineava la velocità con cui si diffondeva il contagio a cui invece corrispondeva, da parte di alcuni Stati, un allarmante livello di inerzia e il Ministro Hajdu asseriva nel frattempo che il Covid-19 avrebbe potuto contagiare tra il 30 e il 70 % dei canadesi.
Trudeau annunciava dunque un fondo da $1 miliardo in risposta all'emergenza compresi 500 milioni per province e territori, oltre al contributo di $50 milioni all‘OMS e $275 milioni per finanziare la ricerca in Canada. Si procedeva poi all’istituzione di un programma di accesso al credito, Business Credit Availability Programm, per sostenere il finanziamento del settore privato attraverso la Business Development Bank of Canada e l’Export Development Canada con un sostegno ulteriore di $10 miliardi alle attività economiche.
Con la conferma a metà marzo della trasmissione del virus all’interno delle comunità, le province e i territori canadesi dichiaravano lo stato di emergenza.
Conseguentemente, con alcune varianti, le varie giurisdizioni provinciali e municipali seguivano la linea improntata al divieto di assembramento, alla chiusura delle scuole, alla chiusura delle attività economiche non essenziali, alle restrizioni al movimento e all’isolamento di 14 giorni obbligatorio per i viaggiatori che facevano rientro nel Paese in base al Quarantine Act.
Tale normativa era stata aggiornata nel 2005 proprio dopo la vicenda SARS con nuovi strumenti per il Ministro della salute per imporre misure restrittive ai cittadini a salvaguardia della loro salute.
Al livello federale in un primo momento la chiusura delle frontiere non aveva riguardato i cittadini statunitensi, si comprende poi la necessità, di chiudere il confine sud eccetto per i beni essenziali[14], una scelta indice di una situazione sanitaria in forte deterioramento considerando che il significativo scambio commerciale tra i due Paesi: Washington è il maggior partner per le esportazioni 76,4% e per importazioni 51,5%.
Un rapporto preferenziale reciproco. La chiusura del confine sud, al momento prorogata al 20 maggio, è infatti frutto di un accordo con Washington mentre le restrizioni verso UE e Cina sono state imposte dagli USA in modo unilaterale.
Trudeau comunica il 18 marzo un pacchetto di aiuti ovvero una serie di benefici economici per coloro colpiti da coronavirus, raddoppiando gli aiuti da $27 miliardi a $52 miliardi, differimenti alla tassazione e misure per stimolare l’economia. Si prevedono inoltre $306 milioni per aiutare le attività economiche delle popolazioni indigene, per un sostegno alle imprese attraverso istituzioni finanziarie autoctone.
L’associazione nazionale delle società autoctone permetterà di accedere a prestiti senza interessi per attraversare la crisi e riprendersi questo avrà attenzione alle donne indigene e alle loro attività economiche che anche in questa circostanza risultano più vulnerabili.
Ad aprile una consultazione con i territori e le province allontana l’opportunità di invocare l’Emergency Act che non è mai stato invocato dal Canada.
Questo strumento legislativo ha sostituito il War Measure Act nel 1988 e conferisce al PM e al Gabinetto poteri considerevoli che possono rendersi necessari in alcuni tipi di scenario: disastri naturali e malattie, problematiche di ordine pubblico emergenze internazionali o guerra.
I poteri speciali per far fronte a situazioni critiche comportano l’assunzione dei poteri delle province, ad esempio in aree come la salute ed il commercio.
In realtà la collaborazione che si è instaurata tra governo federale e territori e l’imposizione di divieti di spostamento messa in atto a livello provinciale ha fatto scartare l’ipotesi.
La consultazione con i premier, un atto comunque necessario, non ha fatto emergere l’opportunità di ricorrere a tali poteri speciali da parte del Governo.
Trudeau ha ripetutamente sottolineato la fiducia nelle istituzioni canadesi nella possibilità di contrastare una situazione pur gravissima. Il sistema federale conferisce infatti ai territori il potere di agire efficacemente.
Ciò che era necessario era coordinamento e collaborazione e non una dose, peraltro inutile, di autoritarismo.
Gli strumenti più utili che da un punto di vista pratico sarebbero derivati da tale normativa come l’imposizione di uno smistamento di maschere ventilatori e dispositivi medici da una zona all’altra del Paese o la costrizione al personale medico a lavorare in una determinata area non sono risultate di una tale urgenza per mettere in moto l’Emergency Act.
Vi è stata anche una forma di solidarietà tra le varie strutture ospedaliere connaturata al tipo di assistenza sanitaria canadese con scambi di personale e dispositivi di protezione a seconda dei bisogni di ciascuno.
Una circostanza che non può trovare riscontro ad esempio negli Stati Uniti dove gli ospedali sono gestiti come imprese private e, dunque, la mancanza di solidarietà è nella natura stessa del sistema.
La fiducia nel sistema sanitario del loro Paese e nelle loro istituzioni è forte nei canadesi. Come indicato dal vice primo ministro, C. Freeland, l’Emergency Act è una misura di estrema ratio dunque sarebbe stato segnale di una situazione non più gestibile.
In tale linea le Forze Armate sono state attivate per “fornire assistenza alle autorità civili o partner non governativi nel rispondere a disastri internazionali ai disastri interni o alle emergenze (Strong Secure and Engaged 2017).
La collaborazione si è attivata tramite l’Emergency Management Act, in base a cui una provincia può chiedere l'assistenza delle FFAA come ha fatto il Québec, in particolare per le strutture residenziali per anziani, dove il personale medico militare si è attivato per fornire le competenze necessarie in tempi rapidi mettendo tutte le forze nella battaglia Covid come ha sottolineato ai primi di maggio[15] il ministro della Difesa Harjit Sajjan.
Nel Nord, i Rangers in particolare il 2CRPG (2nd Canadian Ranger Patrol Group) si è mobilizzato nel Nunavik per facilitare la predisposizione dei compiti del personale sanitario.
Il legame tra salute e sistema di sicurezza nazionale e globale e l’interconnessione degli eventi era un dato acquisito nel post SARS come aveva fatto notare nel 2004 il PM, Paul Martin.
Lo stesso documento National Security Policy[16] (aprile 2004) poneva la salute pubblica come un elemento fondamentale della sicurezza nazionale, sebbene all’epoca l’emergenza fosse il terrorismo e le questioni di salute figurassero solo all’ottavo posto.
Malgrado la gravità di questa crisi epocale, le azioni intraprese hanno cominciato a mostrare la loro efficacia tanto che già alla metà di aprile il PM ha messo in guardia contro una prematura ripartenza dell’economia. Anche il desiderio di alleggerire il confinamento ha trovato espressione in alcune proteste a Vancouver a fine mese. Evidentemente le problematiche canadesi (e mondiali) sono quelle di un progressivo ritorno alla ripresa di alcune attività.
La regione più colpita del Paese, il Québec, ha recentemente aperto le scuole dell’infanzia e anche altre province hanno elaborato piani in tal senso[17]. Come l'Ontario che, nelle parole del premier Doug Ford, più che un calendario ha studiato una road map per la ripresa delle attività.
Fondamentale in queste circostanze è disporre di un dettagliato piano di test diffusi nella prospettiva di riapertura delle attività come suggerito dagli esperti scientifici tra cui l’Oms.
La prudenza è d’obbligo ad Ottawa memori dell’esperienza del 2003 quando si ebbe un ritorno del virus a emergenza passata. I timori sono quelli di perdere il terreno conquistato all’epidemia nella contemporanea sfida di trovare un equilibrio tra preoccupazioni di sicurezza e la necessità di rimettere in moto l’economia.
Il Direttore parlamentare del Budget Yves Giroux, ha avvertito qualche giorno fa che il deficit federale per il 2020 potrebbe aggirarsi addirittura intorno a $1000 miliardi per la fine dell’anno.
Il governo ha messo in campo dal mese di marzo programmi di sostegno alle attività economiche che avevano spinto il deficit 2020-21 intorno ai $251 miliardi. Ma sollecitato sull’argomento, il 13 maggio Trudeau ha asserito che la situazione si muove in maniera molto rapida e che non avrebbe senso fornire in questo momento una eventuale documentazione finanziaria che potrebbe rivelarsi non più valida tra un mese.
L’immediato è l’urgenza, non il lungo periodo.
In tal senso se l’attenuarsi del confinamento trasmette adesso anche agli individui la responsabilità di gestire la minaccia nazionale globale legata alle interazioni e alla circolazione, dal punto di vista economico nel lungo periodo il minoritario governo liberale dovrà trovare la strada di un intervento che incontri il consenso politico probabilmente con un interventismo statale attenuato.
La leadership di Trudeau, già messa alla prova nei primi mesi del 2020, sarà ancora sotto scrutino al momento dell’uscita dall’emergenza e si misurerà anche nella capacità di rianimare all’interno la visione di una società aperta del territorio e, sul piano internazionale, la difesa dei valori dell’Occidente.
L’Ontario della SARS, il Canada del Covid-19
Dopo quasi un ventennio dalla gestione difficoltosa della SARS, Ottawa ha potuto verificare con la pandemia in atto come i cambiamenti apportati al sistema hanno impattato la gestione dell’emergenza Covid-19 .
Dal punto di vista della risposta sanitaria particolarmente interessante appare un rapporto del 2006 redatto dalla Commissione SARS guidata dal Giudice Archie Campbell[18] dove si sottolineava come l’epidemia avesse costituito un campanello d’allarme per il Paese e per le sfide che avrebbero potuto presentarsi in futuro.
Il sistema di salute pubblica e le infrastrutture di emergenza erano state trascurate dal punto di vista delle risorse dai vari governi che si erano fino ad allora succeduti. Infatti, proprio gli ospedali divennero i centri di diffusione del virus: delle 438 persone che erano risultate contagiate in Ontario il 72 % aveva contratto l’infezione in ospedale e 45 % era costituito da personale sanitario.
Il quadro delineato nel documento del 2006 era impietoso: sistema di salute pubblica inadeguato, disfunzionale e frammentato con scarse risorse e senza un piano pandemia, sistema di comunicazione non allertato dell’emergenza della malattia in Cina e Hong Kong.
Gli aspetti negativi della confluenza di fattori, quali debolezza sistemica nella sicurezza dei lavoratori, nel controllo dell’infezione e della salute pubblica, venivano rischiarati solo dalla grande professionalità e abnegazione del personale sanitario.
Al contrario l’esempio di come gestire l’epidemia era giunto da Vancouver con un ben sviluppato controllo dell’infezione, protezione per il personale e protocolli definiti per gestire l’emergenza. Se i numeri del contagio in BC erano stati esigui (cinque) è altrettanto vero che una consistente cultura della sicurezza aveva permesso un miglior contenimento del contagio.
La lezione principale, prosegue il rapporto, è il principio di precauzione per ridurre il rischio.
Ragionevoli elementi di una minaccia alla salute pubblica sono sufficienti per agire con la massima precauzione senza ricorrere alla prova scientifica.
Se, come accadde a Vancouver nel 2003, una malattia respiratoria non ancora diagnosticata è trattata ai massimi livelli precauzionali, la protezione del personale è immediatamente garantita e il livello di guardia può essere abbassato con il delinearsi della diagnosi.
Non sfugge come questa procedura attuata nel nostro Paese nello scenario 2020 avrebbe potuto incidere significativamente nel contrasto alla pandemia.
Nel rapporto 2006 si denunciava la mancata attenzione in termini di risorse finanziarie da parte dei vari governi che si erano succeduti con il sistema di infrastrutture emergenziali in uno stato di decadenza.
Il post SARS ha indirizzato le risorse verso l’ottenimento di standard minimi per il controllo delle infezioni nei dipartimenti di emergenza in modo da assicurare un numero adeguato di camere a pressione negativa per i pazienti che hanno contratto malattie contagiose.
La passata esperienza ha fatto sì che fosse migliorato il training del personale sanitario, l’identificazione dei pazienti infetti e fossero aumentate le camere dotate di strumenti per il filtraggio dell’aria negli ospedali.
Inoltre istruzioni più chiare ed aggiornate dalle autorità sanitarie vengono fornite dalle autorità a medici, infermieri e agli amministratori ospedalieri.
Il Canada, secondo alcuni esperti, deve ancora affinare gli strumenti di gestione di emergenze di vaste proporzioni, nel senso di dover liberare posti durante una crisi gestendo al meglio la dimissione di pazienti non gravemente ammalati dalle strutture ospedaliere.
La gestione del Covid-19 è stata coordinata tramite efficace comunicazione e cooperazione tra i vari livelli di governo federale e provinciale e in maniera responsabile. Questo senso di responsabilità è stata la linea adottata anche dai media canadesi con un impegno giornaliero e capillare affinché l’informazione in queste circostanze fosse parte del sistema e espressione del “sentimento” complessivo di sicurezza.
Se qualche esitazione iniziale da parte del Governo si è obiettivamente riscontrata, come una lentezza nel mettere in atto le linee guida per il controllo dei passeggeri negli aeroporti, ogni esitazione è poi velocemente stata superata.
Le criticità affrontate dal Canada e da tutti i Paesi in questa occasione sono essenzialmente dovute alle caratteristiche epidemiologiche di un virus nuovo che si è propagato rapidamente. Il che ha avuto effetti sui dati che sono stati forniti soprattutto nella fase iniziale.
I dati erano relativi soltanto ai soggetti sottoposti al test, escludevano cioè coloro che potevano aver contratto il virus ma non erano stati sottoposti al test, oppure le persone esposte al virus ma asintomatiche.
In questi casi i numeri effettivi sono più alti, il che altera la veridicità dell’incidenza della malattia, che può apparire bassa, così come il tasso di mortalità che può risultare troppo elevato.
Dati non precisi possono esporre a reazioni inopportune da parte del pubblico e ad azioni errate da parte del governo.
Uno di maggiori esperti canadesi David Naylor professore di medicina all’università di Toronto e tra gli autori del rapporto Learning from SARS indicava a fine marzo[19] la necessità di condividere i dati con analisti esperti in modo da avere una consapevolezza maggiore sulla situazione reale e agire più puntualmente per appiattire la curva del contagio e limitare il tasso di crescita del virus.
Per agire in modo appropriato serve un quadro preciso, che sintetizzi demografia e profili di rischio, da collegarsi agli andamenti dei test dei ricoveri e dei decessi. Questo permette al governo di agire adeguatamente sul come allentare o intensificare o allentare il distanziamento fisico e dunque avere idonei strumenti per agire sul piano della ripresa economica. L’uso dei dati in modo corretto è fondamentale anche per la protezione della popolazione più debole come anziani e malati che evidentemente in Canada come altrove hanno pagato il prezzo maggiore al Covid-19.
Naturalmente la velocità del contagio ha reso le strutture ospedaliere affollate e cancellato almeno 100.000 interventi chirurgici che saranno, probabilmente realizzati per l’autunno.
Il Covid continuerà a prosciugare risorse finanziarie e umane con una exit strategy diluita nel tempo specialmente se il virus, come evidenziato in una ricerca dell’Università del Minnesota, dovesse costituire la preoccupazione sanitaria mondiale per i prossimi due anni.
Il futuro sarà sempre più digitale poiché questo renderà i pazienti meno esposti alle problematiche di contagio.
L’obiettivo del Canada è quello di un'infrastruttura digitale che copra il territorio nella sua interezza con un collegamento tra due sistemi, quello della salute pubblica e quello dell’informazione clinica. E la messa in atto della formula di successo della Corea del Sud, quella delle tre T: test, tracciamento, trattamento.
Multilateralismo sinocentrico e Occidente senza leadership
Sul piano internazionale il Canada ha mantenuto e rafforzato le relazioni con l’OMS.
Theresa Tam per i suoi legami con l’Organismo di Ginevra è stata perfino maleducatamente accusata dal un parlamentare dell’Ontario, Eric Duncam[20] di assecondare gli interessi cinesi.
La performance dell’Organizzazione è stata fortemente criticata dal Presidente Trump che ha infatti interrotto il contributo a metà Aprile (22% primo contributore mondiale, mentre il Canada al 2,7) in una politica s’inscrive palesemente nella contrasto strategico con Pechino.
Il ministro canadese allo Sviluppo Internazionale, Karina Gould, ha commentato[21] non essere questa la risposta adeguata in un momento senza precedenti storici per la comunità internazionale.
Allorché serve una reazione globale e coordinata è necessario collaborare con gli organismi internazionali per combattere la pandemia.
La crisi del 2020 ha fatto da acceleratore brutale a tendenze antecedenti e che ora sono esacerbate.
Ci si chiede se esista ancora un concetto di comunità internazionale poiché la pandemia, minaccia globale per eccellenza, non è riuscita a far allineare neanche i Paesi del G20 o del G7 intorno ad una risposta collettiva.
In contrasto con un dato inequivocabile: la cooperazione internazionale è assolutamente indispensabile.
Eppure è inibita dallo scenario di scontro di potenze Stati Uniti/Cina il cui confronto è ostacolo permanente e nocivo non solo all’elaborazione di atti formali e soluzioni condivise (vedi Consiglio di Sicurezza attualmente presieduto da Pechino) ma addirittura alla messa in moto di una riflessione concertata. Tale circostanza se si rivela pericolosa nella attuale gestione della crisi lo sarà ancora di più nel post Covid-19 per le conseguenze soprattutto economiche che la pandemia ha avuto sul Pianeta compresi i paesi in sviluppo.
In altri termini il problema per il Canada (e l’Europa) è che la mancanza della leadership americana si traduce in una mancanza di leadership tout cour per l’Occidente.
Ciò fa emergere un “multilateralismo cinese” ovvero sino centrico e temuto poiché la percezione attuale della Cina non è positiva (sicuramente non lo è in Canada), nutrita dal sentimento che il virus proviene dalla Cina e che Pechino. La Cina ha inoltre una strategia volta ad occupare ruoli chiave nelle organizzazioni internazionali come leva politica e diplomatica che incide inevitabilmente sul contenuto delle discussioni su scala mondiale. Un atteggiamento che integra più il concetto di egemonia che di leadership.
Indubitabilmente le istanze multilaterali vanno urgentemente ripensate poiché la crisi è sanitaria, economica e di sicurezza. Dunque, richiederà maggiori e non minori risposte collettive.
In questo senso si naviga verso un multilateralismo fluido come il sistema internazionale al presente. Oppure verso una diplomazia a gruppi ristretti che poi va verso le istituzioni internazionali integrandone i contenuti.
Il Canada ha una reputazione di una buona cittadinanza internazionale e anche una tradizione di buona diplomazia. Ha la capacità di saper negoziare, identificare l’essenziale e costruire compromessi per raggiungere un accordo. Questo potrebbe essere attuato ad esempio nell’ambito del G20. Ottawa (e Bruxelles) potrebbe muoversi in questa direzione[22].
Conclusioni
Il PM Trudeau ha descritto la presente crisi come la sfida della nostra generazione.
Interessante è notare come questa stessa espressione fosse stata utilizzata nel corso della scorsa campagna elettorale, riferendosi al tema del cambiamento climatico.
In realtà questa ripetizione non è necessariamente un ripensamento d’urgenza.
Si inserisce esattamente in un continuum di incuria della comunità internazionale che trascura la prevenzione, trascurando in questa maniera il concetto di sicurezza umana.
Il virus ha mostrato la vulnerabilità delle società in casi di incuria della politica sanitaria di molti Stati, ma anche per quei Paesi come il Canada che avevano a disposizione strumenti rivisti per far fronte alle catastrofi.
Il corto circuito del sistema internazionale che è stata la pandemia Covid-19 e che ha fermato gran parte del Pianeta per alcuni mesi dovrebbe portare ad una presa di coscienza sul prossimo disastro che potrebbe essere proprio quello legato al cambiamento climatico.
Un tema su cui la consapevolezza dei canadesi non manca se lo scorso agosto un sondaggio rivelava che il 42% dei cittadini considerava il cambiamento climatico come un’emergenza nazionale[23].
Del resto, come osservato all’inizio, le prospettive di tali calamità costituiscono un soggetto dibattuto da tempo. Sono decenni che le Nazioni Unite sostengono che l’insicurezza nazionale si sarebbe tradotta in insicurezza globale. L’idea che non saremmo stati minacciati (soltanto) sul territorio o alle frontiere ma da un fenomeno globale era dato acquisito.
L’errore non risiede tanto nella constatazione di non aver prestato attenzione a previsioni / analisi esistenti per il futuro ma di non aver preso coscienza della circostanza che il mondo attuale non è un prolungamento del mondo passato.
Il risultato è una palese dissonanza: da un lato emerge il potere dello Stato nazionale a cui ci si rivolge nel momento della crisi sociale, per la protezione degli individui e della collettività. Tuttavia, questo stesso Stato non è in grado di gestire in proprio una sfida globale dato che esso rimane legato ad un territorio e a una collettività nazionale.
Addizionare circa 193 politiche nazionali di salute porta a risultati mediocri e controproducenti. Le politiche interne dovrebbero piuttosto articolare i bisogni sociali, economici e nazionali ed “aggregarli” alla mondializzazione.
L’ampiezza della pandemia è poderosa come il fallimento della cooperazione internazionale di cui in una certa misura è espressione.
Si auspica che nell’immediato futuro possano emergere a livello internazionale nuove solidarietà su cui ricostruire un multilateralismo, che malgrado tutto sembra inevitabile.
Ci sarà un tempo lungo per “aggiustare” il sistema.
Nel frattempo, il Canada e l’Europa non possono permettersi di subire il presente. Occorre integrare prevenzione e globalizzazione, in altri termini saper costruire una sicurezza sociale che tenga conto della velocità ed ampiezza degli scambi planetari di beni e persone, ma sia coordinata e in linea con le sfide mondiali per gestire il rischio presente e quello futuro.
Prevenire per governare.
Non vuoi perderti gli aggiornamenti del Centro Studi Italia Canada?
Iscriviti alla nostra Newsletter.
[1]B.Tertrais, Géopolitique des ruptures stratégiques contemporaines, note no 21/2015 Fondation pour la Recherche stratégique
[2]2 16 tra nazioni e territori sono interessati, 4.347935 casi e 297,241 vittime fonte WHO, May 16 2020.
[3]Paul Benkimoun, «Coronavirus : comment la Chine a fait pression sur l’OMS », Le Monde, 29 janvier 2020
[4] Per i dati aggiornati si rimanda ai reports dell’OMS https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/situation-reports ; per il nostro Paese il dato al 15 maggio era : casi : 223096 ; decessi: 31368
[5]https://www.theguardian.com/world/2020/apr/29/revealed-the-inside-story-of-uk-covid-19-coronavirus-crisis
[6]World Economic Outlook, International Monetary Fund, April 14, 2020
[7]https://www.nytimes.com/2020/01/31/world/canada/sars-toronto-coronavirus.html
[8]https://www.canada.ca/en/public-health/services/diseases/2019-novel-coronavirus-infection.html#a1 dati aggiornati al 16 maggio 2020
[9]https://www.phac-aspc.gc.ca/publicat/sars-sras/pdf/sars-e.pdf
[10]https://dailyhive.com/vancouver/trudeau-approval-rating-coronavirus-angus-reid
[11]https://www.cbc.ca/news/politics/theresa-tam-could-have-acted-sooner-1.5546819
[12]Pneumonia of unknown cause China 5 January 2020: “based on preliminary information from the Chinese investigation team, no evidence of significant human to human transmission have been reported”
[13]https://ottawacitizen.com/news/local-news/tracking-the-coronavirus-from-wuhan-china-to-canadas-capital-a-covid-19-timeline/
[14]https://www.bbc.com/news/world-us-canada-51949243
[15]https://www.cbc.ca/news/politics/covid19-military-seniors-1.5559558
[16]https://www.publicsafety.gc.ca/cnt/ntnl-scrt/scrng-en.aspx
[17]https://nationalpost.com/news/canada/reopening-canada-provinces-ontario-quebec-saskatchewan-alberta
[18]http://www.archives.gov.on.ca/en/e_records/sars/index.html
[19]https://www.theglobeandmail.com/opinion/article-a-path-back-to-normalcy-how-canada-needs-to-respond-to-this-pandemic/
[20]https://www.thestar.com/politics/federal/2020/04/23/does-she-work-for-canada-or-for-china-conservative-mps-attack-on-dr-theresa-tam-draws-no-comment-from-andrew-scheer.html
[21]https://www.theglobeandmail.com/canada/article-canada-disappointed-in-us-move-to-freeze-funding-for-world-health/
[22] P.Martin, The G20 Today: Pandemic Disease, Climate Change, and the Need for a Rules-Based Order, Canada Global Affairs Intitute, April 2020 https://www.cgai.ca/the_g20_today_pandemic_disease_climate_change_and_the_need_for_a_rules_based_order
[23]https://toronto.citynews.ca/2019/08/12/canada-climate-change-national-emergency-poll/