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Uno sguardo al mondo: la complessità del presente e il nuovo ordine mondiale. Intervista al Prof. Gabriele Natalizia

Uno sguardo al mondo: la complessità del presente e il nuovo ordine mondiale. Intervista al Prof. Gabriele Natalizia

Cosa sta succedendo alle relazioni internazionali nel nuovo contesto geopolitico che si è aperto con la guerra in Ucraina? Quanto pesa la competizione internazionale tra Russia, Cina e Stati Uniti su tutti gli altri contesti, inclusi Europa, Italia e Canada? Per interpretare la complessità del presente, Laura Borzi ha intervistato per il Centro Studi Italia Canada Gabriele Natalizia, professore di Relazioni Internazionali al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma e Coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info.


di Laura Borzi
Analista, esperta di Artico e politica estera canadese

 

Benvenuto Prof. Natalizia e grazie per questa intervista al Centro studi Italia Canada che permette di orientarsi nel complesso labirinto del sistema internazionale contemporaneo, eterogeneo, fluido e multipolare, un sistema che sta affrontando una grave crisi apertasi nel cuore dell’Europa come fase decisiva di quel Mosca -Occidente collettivo, ormai in atto da oltre un decennio.

 

Usando una terminologia del passato, si potrebbe affermare che dal 24 febbraio assistiamo a un conflitto di stampo imperiale/ coloniale, ma con l’aggravante dell’opzione nucleare.

 

Trascorsi tre mesi dall’invasione russa dell’Ucraina almeno due guerre di usura si stanno consumando in Europa: quella militare tra Russia e Ucraina e quella economica tra Russia e Unione europea. Una guerra circoscritta regionalmente, ma di portata mondiale il cui ritmo dipende non solo dai protagonisti, ma anche da una serie di reazioni sistemiche di attori esterni: l’Occidente a sostegno dell’aggredito in modalità “autotulela collettiva”, potenze come Cina e India che non giocano il ruolo di intermediario, bensì un ruolo intermedio ovvero cercano di trarre il massimo vantaggio dalla situazione creatasi, i Paesi del sud del mondo che pagano il conto della guerra di cui non sono parte, quella relativa all’approvvigionamento alimentare.

 

Se al momento è difficile immaginare la fine delle ostilità, un primo esito niente affatto positivo del passaggio di Mosca dalla strategia di conflittualità integrale indiretta contro l’Ucraina (e per certi versi contro la NATO) a quella diretta è stato lo scossone inferto al complesso sistema delle relazioni internazionali post 1945 con l’apertura di scenari incerti che hanno condotto all’isolamento dai consessi internazionali della Russia di Putin, Stato militarmente nucleare ai sensi del TNP, che proprio grazie alla componente nucleare ha continuato ad avere un ruolo pressoché paritario con Washington anche quando tutti gli altri assets (economici tecnologici demografici) davano i segnali di una potenza in declino.

 

Isolamento russo in parte autodiretto dal 2014 con l’annessione della Crimea che, se non ha rappresentato il game changer delle relazioni Mosca-Occidente, ha significato nondimeno la fine dell’illusione di una qualche convergenza con una società quella occidentale che in una maniera o nell'altra era stato vista, a tratti un modello cui adattarsi.

 

Al netto del movimento di placche tettoniche costituito dal ritorno della guerra nel nostro continente, fatto anacronistico per le opinioni pubbliche europee regione geografica e culturale la cui forma mentis è da 70 anni quella della la pace e del il rispetto delle norme, molto meno per chi vede il mondo attraverso rapporti di forza militari, la crisi del mondo edificato nel dopoguerra era in atto da tempo e come tale era già finita sotto la lente di studiosi e osservatori delle relazioni internazionali.

 

L’ordine internazionale liberale, ovvero quell’insieme di principi e valori a partire da cui il sistema internazionale è stato regolato per sette decenni, costituisce una complessa architettura di istituzioni e organizzazioni internazionali che hanno favorito il progresso delle nostre società in termini di libero scambio, democrazia, multilateralismo, previsione e composizione dei conflitti.

 

Il dossier, dunque, non potrebbe essere di maggiore attualità e risulta di particolare rilievo anche per il Paese oggetto dell’attenzione del nostro Centro Studi, il Canada che per storia e affinità culturali con il vecchio continente è notoriamente il Paese più europeo sebbene non collocato geograficamente in Europa.

Ottawa ha molto beneficiato dell’ordine emerso nel post 45, sia in termini di sicurezza fisica che di prosperità economica,  pertanto ha molto da perdere dallo sfaldarsi di questo sistema.

Su questo sfondo chiediamo al prof. Natalizia le giuste indicazioni per comprendere alcuni aspetti della complessità del presente.

 

Veniamo dunque al primo quesito: quanto la guerra in Ucraina, conflitto regionale con implicazioni sistemiche, ha oramai inciso irreversibilmente sui cambiamenti dell'ordine internazionale? Più precisamente vi è, a suo parere, un’accelerazione verso la bipolarizzazione del sistema?

 

L’aggressione russa all’Ucraina non è la causa dell’instabilità dell’ordine internazionale del post-Guerra fredda, ma ha agito piuttosto da evento disvelante di una realtà mutata di cui i professionisti e gli studiosi di relazioni internazionali avevano contezza già da lungo tempo. A confronto dei primi due decenni del post-Guerra fredda, infatti, gli anni Dieci e Venti di questo secolo sono segnati da una redistribuzione relativa del potere mondiale sfavorevole all’Occidente.

 

Nel 2000, secondo i dati della Banca Mondiale, gli Stati Uniti ancora controllavano il 30,5% del prodotto interno lordo globale, mentre nel 2019 la loro quota era scesa al 24,5%. Sempre nel 2000, i Paesi Ue ne detenevano il 23,4%, mentre nel 2019 erano calati al 17,45%. Al contrario, se a inizio millennio i Paesi dell’Asia orientale e del Pacifico insieme all’India pesavano per il 23% sul Pil mondiale, nel 2019 erano arrivati al 34,3%, di cui circa la metà era in mano alla sola Repubblica Popolare Cinese. La Russia, invece, nonostante la crescita significativa degli anni Duemila (+7% di media annua), ha superato solo nel 2007 e nel 2008 la soglia del 2% del prodotto globale.

 

Nella dimensione militare, i dati del Stockholm International Peace Research Institute confermano questa tendenza anche se in misura meno accentuata. Se nel 2000 la spesa militare statunitense ammontava al 42,9% di quella globale e i Paesi Ue raggiungevano il 17,8%, nel 2019 la spesa dei primi si è contratta al 39,4% mentre quella dei secondi fino al 11,6%. Viceversa, se nel 2000 gli investimenti militari in Asia rappresentavano il 16,6% della quota mondiale e quelli di Pechino il 3%, nel 2019 si è passati rispettivamente al 26,2% e al 13,4%. La Russia, dal canto suo, negli stessi anni è passata dal detenere l’1,9% del budget militare globale al 3,1%.

 

Più che parlare di una bi-polarizzazione, per rappresentare le dinamiche politiche contemporanee credo sia meglio parlare dell’esistenza di un’egemonia – quella americana – sfidata da potenze revisioniste – la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa.

 

La Cina che condivide con la Russia l’affinità ideologica verso l’autoritarismo e una molteplicità di interessi economici ha una partnership importante con Mosca siglata recentemente, lo scorso febbraio. Eppure, per motivazioni essenzialmente economiche non può aderire fino in fondo alle istanze della Russia in Ucraina, arrivando ad una contrapposizione frontale con l’Occidente. In tal senso quanto ci è possibile giocare sul dislivello Russia-Cina perché entrambi gli attori portino nell’ambito della comunità internazionale il loro indispensabile contributo su tematiche erga omnes per così dire, su quei dossier che gli Stati come singoli non possono risolvere. Mi riferisco in particolare alla non proliferazione nucleare al cambiamento climatico, alla prevenzione delle pandemie.

 

Al summit di Madrid della Nato, gli alleati hanno denunciato l’intensificarsi della partnership tra Russia e Cina. Non credo, tuttavia, che il fattore “unificante” tra le due potenze sia la similitudine tra i due regimi. Questi, al netto dell’essere autoritari, sono molto dissimili tra loro sia per modalità di funzionamento (centralità del Partito comunista nel caso cinese, debolezza dei partiti e del parlamento nel caso russo), che per punti di riferimento ideologici (comunismo nel caso cinese, versione radicale del conservatorismo nel caso russo). Nel breve e, forse, nel medio termine Pechino e Mosca trovano il loro minimo comun denominatore nella volontà di modificare lo status quo emerso dalla fine della Guerra fredda e, di conseguenza, nell’ostilità nei confronti del loro principale garante, gli Stati Uniti. Nel lungo termine, tuttavia, esistono molti fattori che spingono per una loro competizione, dalla corsa all’Artico al primato in Asia centrale, passando per l’influenza sul continente africano alle questioni energetiche.

 

Al momento, fin quando Vladimir Putin resterà alla guida della Russia, credo sia molto difficile una reintegrazione del Paese nell’ordine internazionale e, quindi, una sua collaborazione su questioni rilevanti a livello globale come quelle citate. Al contrario, gli Stati Uniti e i loro alleati, come ribadito anche a Madrid, lasciano la porta aperta alla Cina nel caso essa volesse ricostruire il rapporto con l’Occidente sulla base di un engagement costruttivo. Il problema è, in questo caso, la volontà cinese. Che non sembra esserci.

 

Prof. Natalizia, la Russia di Putin è tornata ad essere una notevole fonte di preoccupazione transatlantica e protagonista assoluta dell’agenda mondiale dall’inizio del 2022. Tuttavia, la situazione è assai più complessa rispetto all’epoca del confronto bipolare con una sfasatura determinata dalle differenti priorità strategiche di Stati Uniti (Cina) e NATO (Russia) allorché in passato il focus per entrambi i soggetti era piuttosto il contenimento della minaccia sovietica. A suo dire quanto peserà all’interno della stesura del nuovo concetto strategico dell’Alleanza la “grave distrazione Ucraina” nel contesto di quello che è oramai fenomeno strutturante del sistema internazionale, ovvero il confronto con Pechino?

 

Le alleanze sorgono quando due o più Stati condividono una medesima minaccia, che li induce a promettersi mutua assistenza militare. Nel Patto Atlantico non era esplicitata l’identità della fonte dell’attacco atteso contro Stati Uniti, Canada ed Europa occidentale. Nel contesto della Guerra fredda, tuttavia, era pacifico che se questo fosse divenuto realtà sarebbe stato ad opera dell’Urss.

 

Soprattutto dopo gli allargamenti del 1999 e del 2004, la scomparsa di quel minimo comun denominatore strategico che era stato l’Unione Sovietica ha innescato alcune inedite divisioni tra gli alleati. Se gli Stati dell’Europa orientale hanno visto nella Federazione Russa la principale minaccia da fronteggiare, quelli dell’Europa meridionale – Italia in testa – hanno spinto affinché si presti maggiore attenzione ai pericoli derivanti dall’instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo, come terrorismo, organizzazioni criminali e flussi di immigrazione clandestina.

 

Negli anni della presidenza Obama, invece, gli Stati Uniti hanno reimpostato la loro grande strategia intorno al pilastro del Pivot to Asia, con il sostegno delle altre potenze anglosassoni. Con l’amministrazione Trump, si è cominciato a parlare esplicitamente della “minaccia cinese” e Washington ha ottenuto che, nella dichiarazione finale del summit di Londra 2019, la Nato assumesse per la prima volta una posizione in merito, pur adottando una formula di compromesso capace di tenere insieme la prospettiva americana con quella europea. Nel documento, infatti, si legge: «riconosciamo che la crescente influenza e le politiche internazionali della Cina profilano tanto opportunità quanto sfide che dobbiamo affrontare insieme come un’Alleanza».

 

L’atteggiamento della Casa Bianca non è cambiato con l’insediamento di Joe Biden. Al summit di Bruselles 2021, infatti, gli Stati Uniti hanno ottenuto dagli alleati un ulteriore passo in avanti rispetto al 2019. Pur ribadendo l’interesse della Nato a cercare con Pechino un «dialogo costruttivo», la dichiarazione finale parla esplicitamente della Cina come di «una sfida sistemica all’ordine internazionale fondato sulle regole» oltre che nei confronti di «aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza». E nel Concetto Strategico della Nato, reso pubblico al summit di Madrid, la Cina viene presentata come una potenza le cui politiche sfidano interessi, sicurezza e valori dell’Alleanza Atlantica.

 

La guerra in Ucraina, tuttavia, ha probabilmente modificato la stesura del documento, imprimendogli un’impostazione più dedita al contenimento della Russia di quanto non lo sarebbe stata se fosse stato licenziato prima del 24 febbraio. In tal senso, credo che l’aggressione russa abbia rafforzato la posizione che la Polonia e altri Paesi dell’Est tenevano sin dal loro ingresso nella Nato.

 

Veniamo al Canada, uno Stato che considera la propria difesa e sicurezza nazionale impossibili da concepire senza Washington. Si dice che la politica estera canadese siano gli Stati Uniti. Washington condivide l’idea della peculiarità e l’importanza della relazione col vicino per la difesa del continente americano. Non a caso la prima telefonata del neoeletto Presidente Biden è stata quella fatta al PM Justin Trudeau. Ottawa è anche tra gli Stati fondatori dell’Alleanza atlantica, un patto concepito non solo come alleanza militare, ma come forma di istituzionalizzazione permanente delle democrazie occidentali nella loro comunanza di interessi e valori. Nel 1948 il Ministro per gli Affari esteri, Louis St Laurent, parlava della preservazione della pace nel mondo sotto la leadership di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia da esercitarsi non solo tramite strumenti militari, ma anche economici e morali. Dopo oltre 70 anni in un sistema delle relazioni internazionali che presenta nuove sfide, Washington chiede agli alleati di “fare di più”. Per Ottawa la richiesta si traduce nel breve periodo in un ripensamento in merito al significato della difesa del continente americano in epoca di competizione tra potenze. Leggasi aggiornamento del NORAD.

In questo quadro di sfide e cambiamenti Ottawa non può più permettersi come in passato il lusso di una politica estera in cui vi era sistematica coincidenza di valori e interessi. Nel Paese si è da tempo diffusa tra gli esperti la necessità di elaborare un nuovo documento di Sicurezza che detti le linee guida per l’azione futura.

 

Risale infatti al 2004 la pubblicazione di una politica di sicurezza nazionale, Securing an open Society: Canada ‘s National Security policy, elaborata all’indomani dell’ 11 settembre il cui capitolo dedicato alle questioni internazionali faceva riferimento a terrorismo, proliferazione di armi di distruzione di massa, pericoli posti dai failed States. Epoca archiviata.

 

Lo stesso quadrante Asia Pacifico sarà oggetto di una puntuale riflessione che detti le linee della politica canadese in un’area chiave per il futuro dei rapporti di forza su scala planetaria.

 

La domanda è questa: in che senso questi documenti possono rappresentare per una media potenza come il Canada (e l’Italia?) una forma di (Grand) Strategy. Ovvero, dato il margine di manovra ristretto e necessariamente incanalato nelle necessità della grande potenza di riferimento (USA tanto per Ottawa che per Roma) queste riflessioni scritte possono interpretarsi piuttosto come un messaggio ai propri cittadini notoriamente poco attenti alla politica estera, più che alla potenza leader, agli Alleati ai competitors? Può cioè essere anche questa una risposta affermativa alla richiesta di fare di più?

 

Oppure la messa per iscritto della direzione strategica da prendere è esercizio di poco rilievo almeno sul piano esterno, perché in periodo di accresciuta competizione di potenza sono comunque le esigenze delle großen Mächte a dettare le linee di condotta degli affari internazionali nel rispettivo campo di riferimento?

 

Una grand strategy è, anzitutto, un esercizio – pubblico o secretato – di riflessione strategica che il governo di un Paese compie per ordinare gerarchicamente le minacce che incombono sulla sua sicurezza, individuare i mezzi razionalmente impiegabili per fronteggiarle e spiegare al pubblico interno ed internazionale perché, verosimilmente, questo si riveli efficace in relazione agli obiettivi prefissati. Il documento di Ottawa del 2004 che lei citava è in qualche modo un tentativo di abbozzare la grande strategia del Canada.

 

Per una media potenza, tuttavia, l’aumentare della competizione sulla scena internazionale – soprattutto in presenza di minacce strategiche che incombono su di esso – costituisce un fattore di restrizione delle possibilità di scelta e, quindi, anche di conduzione di una politica estera con maggiori spazi di autonomia nei confronti dell’alleato “maggiore”, in questo caso gli Stati Uniti. Verosimilmente, più la competizione con la Cina e con la Russia aumenterà, più gli spazi di manovra per il Canada si restringeranno e il Paese dovrà allinearsi su un numero crescente di questioni alle posizioni americane. Anche dall’allineamento delle medie potenze, infatti, passa una strategia di successo da parte della potenza egemonica per il contrasto alle potenze revisioniste. 

 

[fonte immagine: instagram.com/nato]

 


Gabriele Natalizia, Professore Associato DISP - Sapienza Università di Roma, Coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info. Ultime pubblicazioni: Renderli simili o inoffensivi. L'ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia, Carocci, Roma, 2021Gli "insoddisfatti". Le potenze revisioniste nella teoria realista delle Relazioni internazionali, Quaderni di Scienza politica, XXVII, 2-3, 2020 (with Lorenzo Termine); Tracing the modes of China's revisionism in the Indo-Pacific. A comparison with pre-1941 Shōwa Japan, Italian Political Science Review, 2020 (with Lorenzo Termine).


 

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