Marshall McLuhan, Thank you so much!
Quando dal Canada, 40 anni fa, le BR iniziarono a perdere
"Se funziona, è vecchio".
Marshall McLuhan
Giuliano Compagno*
Non riscoprirò l’acqua calda: Marshall McLuhan è stato onorato in tutto il mondo. Del resto la sua attività di studioso ha rappresentato una clamorosa eccezione per via di una puntuale capacità di interpretare i fenomeni e i concetti al suo tempo dominanti. Ancor oggi a prescindere dal pensiero di Marshall McLuhan non è dato comprendere alcun meccanismo di comunicazione o di trasmissione di fatti e pensieri: mass-media, moda, pubblicità, energia… Quanto ancora connoti centralmente la società contemporanea deve a questo intellettuale canadese una critica e un giudizio serrati, la fulminante velocità con cui la società globale fu da lui anticipata e compresa.
A Marshall McLuhan il mondo deve moltissimo, sebbene sia accaduto spesso che le celebrazioni in suo nome si fossero consumato in un clima accademico poco consono alla sua velocità di pensiero. Ad averlo brillantemente divulgato è stato Derrick De Kerckhove, intellettuale globe-trotter piuttosto serio e vivace, che nel tempo ha ereditato parte della magia del grande studioso canadese senza pretendere di esserne il solo epigono. Di quella scuola De Kerckhove è stato semplicemente l'allievo migliore, e il più libero. E McLuhan di certo meritava molti esercizi di libertà, molto coraggio. Dalla città come aula al villaggio globale; dalle infinite versioni glocalistiche del web ai nuovissimi media che mai soppiantano i vecchi; dal riscaldare al raffreddare la medesima notizia fino all'idea più illuminante e banale (e com'è che non c'era venuta in mente?...): che i mezzi di comunicazione rappresentassero la “condizione dell'esperienza”. Di ogni esperienza e di ogni medium, che si trattasse del Nilo o della stampa a caratteri mobili, del cavallo o dell'ultima serie Bmw, della lettera consegnata da un messo o di un wapp smistato da un server... Quelle erano e sono tutte condizioni di passaggio nel mondo, a prescindere dalla verità e dalla realtà dell'esperienza medesima.
Stupisce però, come sopra accennavo, che ancor oggi passi praticamente sotto silenzio il contributo fondamentale che il pensiero di Marshall McLuhan ebbe a rendere al nostro paese in uno dei frangenti più tragici della sua storia. Il 19 febbraio del 1978, intervistato da un giornalista de “Il Tempo” di Roma, egli suggerì ai nostri governanti una soluzione clamorosa per sconfiggere il terrorismo. Gino Agnese, già direttore di “MassMedia”, una delle riviste più autorevoli e specializzate nel settore della massmediologia, così ricorderà quello scoop. “L’intervista fece veramente molto rumore. McLuhan disse: 'Bisogna staccare la spina!'. Voleva dire: bisogna togliere la comunicazione e cioè non diffondere i messaggi terroristici, ossia bisogna fare silenzio sul terrorismo. Sarà l’unico modo per spegnerlo. Però ricordo che il quotidiano, dopo quell’intervista, ospitò un dibattito in cui io intervenni muovendo a McLuhan l’obiezione che l’uomo elettrico, come egli lo definiva, non poteva essere privato della corrente. Non si può togliere la spina all’uomo elettrico di oggi, nella società della comunicazione. La società della comunicazione non può essere annullata con un decreto: è impossibile.”
Gino Agnese non aveva tutti i torti, sebbene fu esattamente quel che accadde dopo... E allora vale la pena ricordare gli eventi assai convulsi di quei giorni. Il 12 dicembre del 1980 un nucleo armato delle Br rapisce Giovanni D'Urso, direttore dell'ufficio terzo degli istituti di prevenzione e pena. La rivendicazione brigatista indica nelle carceri un nuovo territorio di scontro, il che, due settimane dopo, chiama in automatico una enorme rivolta nel penitenziario di Trani. Settanta detenuti chiedono la chiusura dello speciale dell'Asinara; un blitz delle forze dell'ordine seda la ribellione e libera gli ostaggi. Ma è con il comunicato n° 6 che il terrore perde la sua prima, vera battaglia. Tra le condizioni per liberare D'Urso i brigatisti ci infilano l'obbligo per la stampa di pubblicare i comunicati emessi dalle galere di Trani e di Palmi. Intanto Mario Scialoja de “L'Espresso” riesce a intervistare i carcerieri del dirigente penitenziario. Questo clima da Big Brother del crimine politico viene rotto dagli spari che uccidono il generale Galvaligi. Al che Scialoja e il collega Bultrini vengono arrestati e due giorni dopo le Br licenziano un comunicato col quale delegano la condanna a morte o la grazia di D'Urso ai comitati di campo di Trani e di Palmi. E pretendono che i giornali ne pubblichino la sentenza. È chiaro che siamo alla follia collettiva. E invece no: proprio dal suo abisso, la coscienza rinsavisce. I media capiscono che ormai sono strozzati dall'abbraccio mediatico dei terroristi rossi e reagiscono come McLuhan, già tre anni prima, aveva loro suggerito.
Alle ore 20 di domenica 4 gennaio 1981 il Tg1 comunica ai suoi telespettatori: “Ci asteniamo dal fornire ulteriori dettagli mentre lo scritto delle BR è al vaglio degli inquirenti.” A far da eco, quasi subito, il “Corriere della Sera”, che inoltra ai propri lettori le seguenti determinazioni: “La Direzione del C.d.S., d'intesa con la direzione del gruppo editoriale e informato il Comitato di redazione, ha deciso da oggi il completo silenzio stampa sulle richieste dei terroristi rapitori del giudice D'Urso. (…) Le ultime mosse dei brigatisti dimostrano ormai, in modo indiscutibile, che l'obiettivo è proprio quello di guadagnare spazio nei giornali e in televisione per recuperare il terreno perduto con gli arresti e le defezioni… Sappia il lettore che questa decisione non lo priverà di alcuna vera notizia: faremo da oggi un giornale, se possibile, ancora più ricco e informato eliminando dalla cronaca del terrorismo solo quella parte di puro ricatto che tende ad avvelenare e stravolgere la verità trasformando i giornali in strumenti di eversione.” Aderiscono all'impostazione di Via Solferino “Il Giornale”, “La Notte” e il “Giorno”. Infine “Repubblica” dalla penna di Eugenio Scalfari: “Non daremo alcun spazio ai loro proclami, ma continueremo a pubblicare tutte le informazioni che riguardano le Br, ivi comprese le loro richieste, col dichiarato intento di farle conoscere all'opinione pubblica.”
Piombati in un silenzio ben più tragico di un regime di isolamento in qualche braccetto speciale, i brigatisti vanno in crisi di asma. Viene meno l'ossigeno della ridondanza, cade ogni velleità di proselitismo, si spezza qualsiasi flebile legame tra la loro teoresi di morte e la generale insofferenza di un popolo che avevano creduto stoltamente di rappresentare. Le Brigate Rosse muoiono anche grazie a un genio di Toronto, che tutto aveva visto e compreso vent'anni prima che i nostri intellettuali di punta dessero i primi segni di vita e di impegno. “Pensatori” poi clonati nel pensiero debole e via a scendere, nei laboratori di ermeneutica e nelle ontologie del telefonino.
È assai probabile che dobbiamo gran parte della nostra integrità democratica a quel McLuhan in presa diretta con la società, all'interprete serio dei fatti, a colui che alcuni anni dopo ci avrebbe di nuovo messo in guardia, stavolta dinanzi alla deriva della politica spettacolarizzata, al circo televisivo che stava ammaestrando gli spettatori, ridotti com'erano alla lobotomizzazione coatta da una compagnia di giro senza arte né parte. Ecco, nell’assistere alle troppe dimostrazioni di acquiescenza nei confronti dei poteri, Marshall McLuhan auspicherebbe una “moratoria oratoria”. Microfoni spenti, spina staccata, soltanto scarni commenti a spiegare le cose fatte sul serio. Il che almeno impegnerebbe qualcuno a far qualcosa, invece che parlarne. E intorno, un silenzio da collina senese in autunno, o da boschi di acero in Nova Scotia, come a restituire decoro all'esercizio dell'ascolto.
*Scrittore e saggista